coraggio

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È tempo di ritrovare il coraggio. Dobbiamo fronteggiare un’urgenza sociale.

Le declinazioni del coraggio sono tante quante le persone che popolano il nostro pianeta. Se ognuno coltivasse il proprio, sarebbe più facile costruire un futuro di speranza.

Se volessimo sviscerare le origini di questa parola e i concetti che esprime ed ha espresso nel corso dei secoli, probabilmente non basterebbe una collana editoriale.

Da un punto di vista etico potremmo definirlo come atto umano, materialmente visibile e misurabile, mentre ontologicamente il coraggio si trasforma in quella volontà di autoaffermazione esistenziale che ogni individuo compie in sé e per sé.

Si parla di coraggio fin dall’antichità.

Un tempo esisteva il coraggio dell’uomo in armi e il coraggio del filosofo. Aristotele lo definì come prima virtù umana, il cristianesimo ne modificò alcuni aspetti assoggettandolo al concetto di “affidarsi”, avere fede in quell’aldilà che ci aiuta a superare l’angoscia della morte.

Cambiano le circostanze, si alternano le ciclicità e si modificano i paradigmi: da opera prettamente umana a competenza delle macchine prima e della tecnologia poi.

Il passaggio di testimone da uomo a macchina è avvenuto nel momento in cui abbiamo rinunciato ad armarci delle nostre mani per far spazio a pistole, carri armati e cacciabombardieri.

La tecnologia, come detto, ha fatto altrettanto, impossessandosi di ciò che prima era solo virtù umana.

Fino a quarant’anni fa eravamo chiamati a compiere un atto di coraggio nel chiamare, scrivere, pronunciarci, sbilanciarci. Esporci. Oggi possiamo comunicare attraverso uno schermo, privandoci della fisicità, della prossimità, del contatto. Non ci sono rischi, non c’è pericolo di compromettersi.

E le virtù umane? Vengono delegate a ciò che umano non è e il coraggio rischia di trasformarsi in un’astrazione virtuale con un progressivo svuotamento di senso.

Paolo Crepet ha dedicato ampio spazio all’analisi del concetto di coraggio e alle accezioni che si sono sviluppate nel corso del tempo.

Cerchiamo di analizzare alcuni passaggi per capire come e dove cercare ciò che oggi sembra stia lentamente allontanandosi dalla competenza umana.

Il coraggio di educare.

Parlare di educazione significa fare riferimento alle due figure che hanno da sempre occupato un ruolo centrale nell’impartirla: famiglia e scuola.

La necessità di accostare il coraggio all’educazione è il frutto dello spaccato che la società ci restituisce oggi.

Chi ha il potere di educare, lo sta esercitando? Abbiamo il coraggio di prendere delle decisioni nette, anche impopolari? Di compiere delle scelte apparentemente controcorrente?

“Una scuola che non boccia è una scuola marcia.”

Di fronte ad un’affermazione del genere non possiamo non notare come la scuola, l’ente preposto ad impartire alle generazioni future i princìpi dell’educazione e della socialità, in questa fase storica, stia mancando di coraggio.

E la famiglia?

Allo stesso modo della scuola, il modo di educare all’interno dei nuclei familiari è mutato con l’evolversi della società.

Le generazioni passate sono cresciute con figure genitoriali inflessibili ed erano diffuse le sberle, anche quelle preventive. In seguito, s’è fatta largo una melassa, un’educazione liquida basata sul “fa’ come ti pare”, sul “se lo fai, bene, altrimenti è uguale”.

Il genitore che non fa mancare nulla al proprio figlio non sta aiutando la propria progenie. Lo sta privando della possibilità di mettere a frutto ciò di cui è geneticamente dotato: la curiosità, l’ingegno. Dobbiamo recuperare la qualità del coraggio nell’educare i figli.

Il coraggio di dire di no.

La negazione non deve essere vista come una cesura, una mutilazione. Bisogna avere il coraggio di opporsi, di capire che un “no” in determinate circostanze è più generativo di tanti “sì” usati a dismisura. Se si passa il limite è necessario avere il coraggio di dire di no.

Il coraggio di amare.

Non quanto ma come. L’amore non dipende dal tempo trascorso insieme, ma dalla qualità, dal modo. Oggi la tecnologia ha cambiato le relazioni. Comunichiamo attraverso “messaggini, faccine, pollicini”.

È necessario tornare a parlare guardandoci negli occhi, respirandoci. Come possiamo fare? Cominciamo da una cosa semplice, parliamone. Parliamo di sentimenti. Parliamo d’amore.

La mancanza di coraggio è un’urgenza sociale e, se non ritroviamo il modo di esercitare appieno le qualità umane, rischiamo di essere sempre meno protagonisti e artefici del nostro futuro. L’auspicio è che i giovani possano ritrovare quel carburante che sta evaporando, possano tornare a governare le dinamiche che sono sempre state di dominio “umano”.

Il coraggio e le sue declinazioni: ne abbiamo parlato con Paolo Crepet ad Ascoli Piceno, in occasione della seconda edizione di Asculum Festival. Per iscriverti alla nuova edizione clicca qui!

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